giovedì 9 giugno 2011

Trad Climbing





Nel mondo dell’arrampicata contemporanea, già sufficientemente variegato e ricco di distinguo tecnico-etici, tiene banco in questi ultimi tempi la “questione” della scalata trad.
Quest'abbreviazione, in sintonia con i consueti provincialismi della cultura nostrana, ormai solidamente esterofila, sta per traditional climbing ovvero “arrampicata tradizionale”. Con essa normalmente viene intesa l’arrampicata che non fa uso di protezioni fisse, dal momento che eventuali punti d’assicurazione intermedi vengono rimossi durante la scalata. La confusione, a questo punto, è già enorme per chi magari arrampica o pratica alpinismo da tempo, figuriamoci per colui che intenda da neofita avvicinarsi alla scalata. Avendo attraversato 30 anni di arrampicata ho avuto modo di vedere come questa si sia evoluta e trasformata, passando attraverso eventi anche traumatici in senso storico e, non di rado, quanto sia stata soggetta a equivoci e mistificazioni. Ciò ha determinato pieghe ed assetti diversi nel modo di concepire la scalata che, proprio perchè non affrontati con la dovuta considerazione culturale, hanno poi condotto a fenomeni di degenerazione che oggi sono sotto gli occhi di tutti. Ora, alla luce di questo fatto, risulta necessario più che mai non incorrere in erronee interpretazioni o in maldestre sovrapposizioni storico-culturali, tentando invece, di avvalerci degli strumenti critico razionali che sono ampiamente a nostra disposizione. Ricorrendo all’antropologia culturale, và detto che per tradizione s’intende generalmente quell’insieme di usi, di costumi e di relativi valori, che nel tempo vengono appresi, conservati, modificati e tramandati alla generazione successiva. Dunque, apparentemente, staremmo parlando nel nostro caso di una scalata che fa riferimento alla “tradizione” e, di conseguenza, verrebbe automatico pensare che essa sia riconducibile alla “nostra tradizione”.
Essendo la storia della scalata relativamente giovane, nonché prevalentemente evolutasi nel nostro continente e soprattutto in ambiente alpino (da cui il termine “alpinismo”), potremmo ragionare legittimamente in termini “europei”. La storia dell’alpinismo è quindi di per sé un po’ cosmopolita, proprio perché i suoi protagonisti, europei, hanno contribuito in due secoli a scriverla apportando ciascuno un po’ delle proprie culture ed esperienze tecniche, diverse, in quanto maturate su terreni morfologicamente differenti. La “questione del trad”, come mi sia consentito definirla in questa sede, ha avuto come luogo d’innesco mediatico la Valle dell’Orco, anche se, oggettivamente, si è già imposta all’attenzione degli arrampicatori in numerose realtà geografiche italiane. Per quanto concerne la Valle dell’Orco, vi si può leggere in prima battuta un preciso significato: e’ in Valle dell’Orco che, nei primi anni ‘70, con l’avvento del “Nuovo Mattino” ha avuto origine l’”arrampicata moderna” torinese. Dunque, sarebbero qui le origini della nostra tradizione?
In realtà non lo sono, perché, a modo suo, anche il free-climbing nostrano ha un suo trascorso che affonda le radici nelle “scuole di arrampicamento” teorizzate da Adolfo Hess nei primi del ‘900. Le protezioni “tradizionali” utilizzate durante l’arrampicata, erano costituite da chiodi da piantare nelle naturali fessure della roccia, oppure, successivamente, da cunei di legno da infiggere a forza nelle spaccature più larghe. Il chiodo da roccia fu a lungo osteggiato dai “puristi” in quanto ritenuto elemento banalizzante della scalata, fino a quando non comparve il chiodo “a espansione/pressione”. Questo chiodo non utilizzava le fessure naturali bensì veniva infisso, previa foratura, quando la roccia risultasse compatta. Si aprì come sappiamo, soprattutto nelle Alpi orientali, il periodo delle “direttissime”, con la reale possibilità che qualsiasi parete potesse essere superata.
Per questioni più morfologiche che “tradizionali”, il suo uso sulle nostre Alpi occidentali rimase abbastanza limitato. Tuttavia fu proprio forando la roccia delle valli torinesi che, alla fine degli anni ‘60 e nei primi anni ’70, vennero realizzate delle vie di arrampicata diversamente “non proteggibili” in alcune loro sezioni. Si tratta di vie celebri come la “Via del Naso” al Bec di Mea in Val di Lanzo, oppure “Tempi moderni” e “Sole nascente” al Caporal, in Valle dell’Orco. Entrate di diritto nella storia dell’arrampicata piemontese, esse sono dunque parte integrante della nostra “tradizione”. In quegli anni la comunità alpinistica subalpina venne a contatto culturalmente e tecnicamente con il mondo dell’arrampicata anglosassone. Lo fece attraverso le analisi e i saggi di Gian Piero Motti, ideologo e fautore del “Nuovo Mattino”, e grazie alla presenza a Torino dello scozzese Mike Kosterlitz.
Fu quest’ultimo, proprio in Valle dell’Orco, ad introdurre tra gli arrampicatori subalpini i “blocchetti a incastro” (nut) che permettevano di proteggere le fessure in modo clean, cioè senza fare ricorso a chiodi e martello. L’assimilazione di quelle novità tecniche non volle però dire qui da noi il ripudio del chiodo tradizionale e neppure di quello a pressione, che lo stesso Kosterliz aveva peraltro usato proprio durante la prima salita della via “Sole nascente” alla parete del Caporal. Motti s’interessò particolarmente alla realtà californiana, colorita da un pragmatismo all’americana che rendeva evidente quanto il “nostro alpinismo” fosse stato menomato dal decadentismo retorico, che aveva addirittura affossato l’epica del suo passato storico. Gli americani, non essendo ancorati al retroterra culturale alpinistico mitteleuropeo (che di fatto ne aveva rallentato l’evoluzione tecnica), scalavano per il piacere di scalare, pur riconoscendo in quell’esperienza dei risvolti dal valore introspettivo. Al di là dell’interesse per le “novità filosofiche”, Motti analizzò anche gl’indubbi progressi tecnici degli americani, che dopo un periodo di artificialismo e di chiodatura esasperata, avevano riscoperto un’idea di “arrampicata libera” con il minor numero di protezioni fisse possibili.
L’interesse per l’idea californiana, non era però suggellato da una volontà di emulazione. Ben conscio del grande valore della “nostra tradizione alpinistica”, quanto assai critico con alcune “degenerazioni” e “rigidità” rischiose dell’alpinismo americano, l’ideologo – alpinista torinese intendeva con il “Nuovo Mattino” aprire una fase culturale nuova. Essa avrebbe dovuto comportare momentaneamente la rinuncia della vetta, dimostrando che si poteva vivere una dimensione “spirituale” importante, non necessariamente essendo legati a un tradizionale valore simbolico. Non che non fosse riconosciuto un “sentimento della vetta”, ma non se ne ammetteva per ragioni ovvie l’esclusività. Dunque, la “filosofia dell’altipiano”, sottolineando come la grande avventura si potesse vivere anche su una parete di fondovalle in modo “gioioso” e assi lontano dagli stereotipi ideal-tradizionali. Il “Nuovo Mattino” non voleva affatto rinunciare all’alpinismo e neppure alla “vetta”, ma intendeva farvi ritorno con uno spirito nuovo. “Tecnicismo” e “spiritualità” sarebbero divenute, come è giusto che sia in alpinismo, valori complementari. Al “sentimento della vetta” pur bello ed esclusivo a suo modo, si sostituiva, come io lo definisco da tempo, il più laico “sentimento della meta”. Ci fu chi travisò però questo messaggio, sia per scarsa sensibilità, sia in totale malafede. Ancor oggi, non mi stupisce che in certi cenacoli culturali il “Nuovo Mattino” sia considerato in qualche modo addirittura l’innesco di una genesi voluta della “sportivizzazione della scalata”. Fatto è che dall’”equivoco” del “Nuovo Mattino”, scaturì una corsa all’arrampicata fine a sé stessa. A partire dalla seconda metà degli anni ’70, in particolare, andò affermandosi sempre di più un’idea di arrampicata libera (free-climbing), cioè senza l’ausilio di mezzi artificiali (come i chiodi) in funzione di appiglio e tesa a superare sempre maggiori difficoltà. Ciò fu reso possibile anche grazie alla diffusione delle scarpette con la suola di gomma liscia ed aderente.
L’evoluzione dell’arrampicata fu rapida e pronta ad assimilare nuove influenze, specialmente quelle geograficamente più vicine a noi. Lo stesso chiodo a pressione, mai del tutto ripudiato, ebbe una sua evoluzione trasformandosi in un tassello più sicuro e più adatto alla necessità di spingere ai massimi limiti l’arrampicata libera: lo spit. Poco importava se questo voleva dire l’abbattimento della componente psicologica dell’arrampicata con la notevole riduzione del rischio, permettendo ancora una volta di salire praticamente su qualsiasi parete priva di fessure naturali. A differenza del vecchio chiodo a pressione/espansione concepito per la scalata artificiale, lo spit era ritenuto in qualche modo più legittimo perché funzionale alla scalata “libera”. La diffusione di itinerari protetti sistematicamente con questo mezzo fu enorme, anche se alcuni (pochi) continuarono a vederlo con diffidenza, così come in alcuni luoghi una sorta di “pudore tecnico” ne limitò l’uso. I grandi fuoriclasse francesi, ma anche tedeschi, italiani e addirittura inglesi, facevano scuola e contribuivano alla massificazione dell’arrampicata, che non tardò molto a diventare “sportiva” a tutti gli effetti con le prime competizioni di Bardonecchia nel 1985.
Le pareti attrezzate per la pratica di questa disciplina sono proliferate a dismisura in tutta Europa e soltanto nel mondo anglosassone, specialmente in Inghilterra e in certi siti degli Stati Uniti, si è preservato un forte zoccolo tecnico - culturale di arrampicata clean, cioè senza l’uso di protezioni fisse come gli spits o addirittura senza i “tradizionali” chiodi da roccia ( etica hammerless). Il termine traditional climbing o trad climbing è dunque nato in Inghilterra nei primi anni’80 per distinguere un’arrampicata clean da quella sportiva su protezioni fisse, detta appunto sport climbing.
Considerando la ciclica “reazione opposta” alla massificazione e all’eccesso di certi fenomeni, era logico che anche qui da noi la minoranza mai sopita dei detrattori dello spit trovasse il momento giusto per alzare la voce, motivata dunque dal dilagare della roccia “bucata” e “violata” in alcuni siti ritenuti in qualche modo “tradizionali”. Non è dunque un caso che ciò sia avvenuto proprio in Valle Orco, dove lo spit, seppur presente, non è mai stato troppo di casa. Una “riserva indiana” quindi, da cui far partire in qualche modo la campagna tecnico-ideologica della “scalata trad”. Ora però se ci rifacciamo come è doveroso al significato antropologico di “tradizione” espresso all’inizio di questa breve dissertazione, apprendiamo che per ragioni ovvie la nostra “tradizione arrampicatoria” è di fatto una miscellanea di influenze che si sono evolute e che sono state tramandate. Non è certo una tradizione hammerless, perchè chiodi tradizionali o “a espansione”, ne hanno scandito i momenti storico-evolutivi.
Il “Trad climbing meeting” che si è tenuto in Valle dell’Orco, ha però fornito una chiara indicazione di che cosa la nuova generazione intenda per trad, fugando ogni dubbio di una confusione con l”arrampicata tradizionale”.
Si tratta di una scalata in “ottica britannica”, dunque clean, su strutture generalmente brevi (10-30 m). In questa “nuova disciplina” vi è però molto dell’arrampicata sportiva a livello di preparazione specifica e di “obbiettivo”, come il superamento della difficoltà, pur rimettendo in primo piano la componente psicologica. La risoluzione di alcuni brevi tratti di scalata, beneficia inoltre dell’esperienza ricavata dalla pratica del bouldering. Nessuna confusione dunque, quanto piuttosto una possibile difficoltà nel gestire il rapporto di questo “spirito trad” con le vie della “nostra tradizione”, soprattutto quando si parli di riattrezzamenti.
In senso positivo, lo spirito trad può essere inteso come il legittimo tentativo di difendere certi luoghi da una possibile contaminazione delle “degenerazioni” dell’arrampicata sportiva, dall’omologazione e dall’uso dello spit plaisir come è già successo in molti luoghi.
Mettere uno spit laddove si possa invece inserire una protezione a incastro, diventa dunque un’azione inutile se non illegittima, soprattutto se ciò avvenga in certi luoghi dove si è preservata un’arrampicata “non sportiva” nel senso tradizionale del termine. La “questione del trad”, potrebbe quindi diventare semplicemente una battaglia di buon senso che, proprio per ragioni “tradizionali”, non può partire però dalla messa al bando totale e definitiva dello spit e del chiodo, ma deve limitarne invece l’uso esclusivamente nei casi riconoscibili come “legittimi”. Questo vuol dire, nel caso di riattrezzamenti di vecchie vie, un uso dello spit solo dove la roccia sia già stata bucata in origine (chiodi a espansione, vecchi spitrock, ecc..), oppure in sostituzione di certi chiodi la cui continua ribattuta – schiodatura comporterebbe un danno reale per la roccia. Combattere una battaglia assoluta e preconcetta contro lo spit, significherebbe solo assumere un atteggiamento talvolta antistorico e addirittura “anti - tradizionale”. Si evince dunque la necessità di stabilire una sorta di “anno zero” e una proiezione verso il “nuovo”, dove, a un’evidente possibilità di modificare l’angolazione con cui ci si può avvicinare alla pratica dell’arrampicata, non faccia eco una stupida e inutile lotta iconoclasta al passato, fatto che di certo non aiuterebbe la diffusione di una nuova “consapevolezza”.
Se la nuova generazione di arrampicatori saprà dialogare con quella del “passato”, io vedo nel trad climbing odierno un ventaglio di benefici che si rifletteranno, come è logico che sia, anche in alpinismo.
Dal punto di vista meramente “tecnicistico”, la rinuncia allo spit in certi casi potrà essere letta come una rinuncia alla garanzia della riuscita, a livello pratico e psicologico (soprattutto tra gli scalatori neofiti e di livello medio-basso). Sarà così possibile riporre al centro del “gioco” l’auto -consapevolezza e la costruzione di una crescita tecnica graduale e responsabile, caratterizzata anche e soprattutto dalla rinuncia.
Dal punto di vista più “idealistico”, la filosofia trad rilancia il gusto della scoperta, dell’esplorazione e, l’incertezza della riuscita, sottolinea l’importanza di quella dimensione dell’avventura che lo spit facile, in basso come in alta montagna, aveva rischiato di menomare e talvolta addirittura di azzerare. Una dimensione dell’avventura legittimata dall’idea di “spazio per la fantasia”, con in primo piano il “sentimento della meta”. E poco importa, a mio avviso, se detto sentimento sarà costruito su pochi metri di fessura proteggibile, sul versante di un masso su una grande parete alpina.