domenica 30 ottobre 2011

La "democrazia" dello spit e del friend

E' fatto incontrovertibile che il "rischio" sia stato da sempre un valore irrinunciabile dell'alpinismo.
Senza il rischio, nel praticare l'alpinismo e dunque la scalata (intesa in senso più generale), non vi sarebbe quella magnifica componente ideale, spirituale (in senso laico) ed emozionale, che ha reso questa disciplina differente da qualsiasi altro sport. A ciò si aggiunga la gratuità dell'azione, il non abituale confronto diretto con altri (a differenza dell'arrampicata sportiva) e l'apparente inutilità. L'elemento rischio, che si traduce nell'incertezza della riuscita, nella reale possibilità di cadere anche con gravi conseguenze e, addirittura, nella possibilità concreta di morire, rende l'alpinismo una disciplina alla quale non di rado si è tentato di dare delle spiegazioni di ordine prettamente filosofico ed "etico".
Nessuno ci obbliga ad affrontare una difficile via in alta montagna, nè a scalare una parete pericolosa o un high ball. Nessuno ci obbliga. E' una libera scelta individuale che ciascuno fa mettendosi in gioco con l'elemento fisico che la natura ci oppone, tentando di adattarsi ad esso con preparazione psicologica e tecnica. E' possibile anche, viceversa, adattare la montagna alla minore preparazione dello scalatore, eliminando una parte oppure del tutto il rischio. Questo è più difficile in alta montagna, per ovvie ragioni, dove però si possono facilitare un pò le cose, mentre invece è assai più facile nella scalata a media - bassa quota. Dico, "si può", accettando il fatto che, così facendo, dettiamo pesantemente le regole del gioco. Non sto dicendo in questa sede che sia giusto o sbagliato, dico solo che è un fatto innegabile. In questi 35 anni l'arrampicata è cambiata moltissimo, per questioni culturali e tecniche. Chi scalava già alla fine degli anni '70 e nei primi anni '80 sa benissimo che l'approccio psicologico a certe vie era del tutto diverso da oggi. L'adrenalina faceva il più delle volte parte del gioco. Il grado non era necessariamente il valore principale. Lo spit, poco dopo, avrebbe ribaltato il punto di vista elevando il superamento del grado a valore primario, a discapito ovviamente del rischio. Meno rischio uguale a maggiori possibilità di superare difficoltà superiori. Questo succedeva da noi, così vicini alla Francia, m non in molti altri luoghi d'Europa, dove il rischio (che non vorrei ora continuare a chiamare tale prima di essere accusato da qualche padre di famiglia d'inneggiare alla bella morte come Lammer) continuava ad essere valore irrinunciabile ed "etico". Diciamo che la diversificazione della scalata tra free climbing di fine anni '70 e arrampicata sportiva primi anni '80, era legittima perchè si delineavano due discipline differenti, con obbiettivi simili, ma "eticamente" diversi. Infatti, tutti corremmo a scalare anche sugli spit, la maggior parte delle volte senza situazioni di contrasto simili a quelle di oggi. Anzi, molti ribaltarono addirittura il proprio fine della scalata, perchè lo spit permetteva di innalzare i propri limiti con maggiore sicurezza. Lo spit diventò qui da noi fatto accettato e largamente condiviso e, su alcuni terreni, uscendo dal "monotiro" e dunque dal campo stesso della scalata sportiva, lo s'iniziò a piantare in quantità e secondo etiche diverse, il più delle volte del tutto personali. Nessuno rinnega questo fatto. Come non si può rinnegare il fatto che sempre di più ha preso corpo una logica "antisportiva", cioè lo spit si è trasformato da mezzo per superare alte difficoltà, a mezzo per permettere a chiunque di adattare le pareti alle proprie difficoltà, oppure di creare illusori teatri con "scenari d'alpinismo" sulle Alpi, consentendo a molti di praticare un certo tipo di scalata (plaisir). Solo pochi hanno continuato a mettere gli spit con una certa etica e preservando l'obbligatorio, dunque anche un minimo d'ingaggio nella salita conservando parte di quel rischio che è componente naturale della nostra attività. E' giusto, è sbagliato? Ciascuno darà delle risposte differenti in base alla propria sensibilità. E qui ne abbiamo sentite molte! Ma non si neghi che oggi, qualcuno sta cercando di rimettere al centro del gioco "la componente psicologica", che non è machismo, pazzia, o dadaismo della scalata, è atto legittimo e naturale se si vuole considerare ancora l'arrampicare, in montagna o in basso, un qualcosa di "diverso" da un noiso gioco all'omologazione. Dunque, l'azione forte di "educare" prospettata da qualcuno (e da molti contestata), io la tramuto "in possibilità di far riflettere", dimostrando che è possibile recuperare un valore irrinunciabile della scalata necessario anche per "educare" in alpinismo". Non è una lotta allo spit in quanto oggetto tecnico, è una lotta alla sua spesso dimostrabile inutilità, all'ottusità e all'arroganza di chi decide comunque, non di "rispettare", ma di "appiattire" ad uso e consumo di tutti.
Se non si coglie questo fatto non avremo mai rispetto per la "scalata sportiva" ed i suoi terreni d'espressione, ne per quella tradizionale. Perchè spittare una fessura adesso, è un fatto egoistico nei confronti di chi la pensa diversamente, è semplice ottusità per mancanza di sensibilità per un diverso modo di porre alcuni valori nel gesto della scalata. "Educare" significa semplicemente creare una nuova conoscenza, per cui se un domani mi recherò con il trapano sotto una splendida fessura proteggibile, sentirò una vocina che cercherà di farmi riflettere se sia giusto imbrigliarla di spit. Se so usare i friend proverò a salirla, altrimenti la lascerò a chi pratica una scalata diversa dalla mia.


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lunedì 10 ottobre 2011

sabato 8 ottobre 2011

Addio a Walter Bonatti, ultimo "eroe" dell'alpinismo

Anche gli “eroi” fuori dal comune, quelli che nell’immaginario ci paiono immortali, sono destinati a lasciare questo mondo. Così, consumato da una grave malattia, se n’è andato Walter Bonatti, uno dei maggiori protagonisti dell’alpinismo dell’era moderna. Giunto giovanissimo alla pratica della montagna sfruttando anche le sue doti di ginnasta, aveva in breve tempo polverizzato diversi tabù del mondo alpinistico, realizzando, soprattutto nel suo periodo di permanenza a Courmayeur, delle imprese incredibili sulle più vertiginose pareti del Monte Bianco. Come spesso accade agli audaci e a coloro che si espongono in prima persona, riuscendo dove altri nemmeno avevano osato, fu oggetto di invidie, calunnie e scorrettezze, e mentre in Francia riceveva addirittura la “Legion d’onore”, in Italia avrebbe invece dovuto impiegare cinquant’anni per far trionfare la “sua verità” nel controverso caso della spedizione al K2. Forse, molti gli rimproverarono di essere sempre ritornato vivo da quelle tragedie che lo coinvolsero nel momento d’oro della sua carriera, mentre altri suoi compagni rimanevano esamini sulla montagna. Altri lo accusarono, in più di un’occasione, di averli addirittura abbandonati. In verità Walter era un uomo fuori dal comune con un fisico eccezionale, ma soprattutto un generoso che fece ciò che era nelle sue reali possibilità per salvare i propri compagni. Si ritirò dall’alpinismo nel 1965 a soli 35 anni, affermando che dopo l’impresa solitaria sulla parete nord del Cervino avrebbe soltanto potuto “ripetersi”. Si dedicò allora ai grandi viaggi e alle esplorazioni negli angoli più remoti del mondo come inviato della rivista Epoca, divenendo brillante giornalista e scrittore. Pur conservando nell’intimo più profondo un amore eterno per la montagna, qualcosa si era però danneggiato per sempre nel suo pensiero relativo all’alpinismo.
Nel mio ultimo colloquio con lui, in un dietro le quinte al Cinefestival di Trento dell’aprile scorso, al termine di una sua conferenza gli avevo sottolineato quanto il suo giudizio fosse stato eccessivamente severo e ingiusto nei confronti della scalata e dell’alpinismo moderno. Lui, aveva alzato le braccia al cielo e aveva semplicemente sorriso. Ma a Bonatti si poteva “perdonare” tutto.
Agli alpinisti che come me hanno avuto il privilegio di conoscerlo di persona, di ripetere alcune delle sue memorabili vie e di leggere tutti i suoi libri, resta una grande lezione di vita, di determinazione e di stile.
Grazie Walter.

Alpinismo e rifugi nelle Valli di Lanzo: quale futuro

Un tempo, il rifugio alpino ed il bivacco costituivano un punto di appoggio e di partenza per l’alpinista che volesse cimentarsi nelle numerose ascensioni che caratterizzano la testata terminale delle nostre valli. Oggi, questo matrimonio tradizionale tra rifugio e alpinista, sembra essere diventato una rarità, anzi, a giudicare dai numeri che riguardano i passaggi degli alpinisti, pare destinato al definitivo divorzio. Il rifugio è semmai oggi diventato spesso una meta fine a sé stessa, un punto d’arrivo e non di partenza. Gli alpinisti sono stati progressivamente sostituiti dagli escursionisti, anch’essi peraltro se non in calo, di certo non in aumento sulle nostre montagne. I pochi frequentatori della montagna “oltre sentiero”, costituiscono ancora quella residua frequenza che caratterizza le vie normali di vette come Il Rocciamelone, la Croce Rossa, L’Uja di Ciamarella e la Levanna Orientale. La ripetizione degli itinerari più classici d’alpinismo conta ormai pochissimi frequentatori, per non parlare delle vie più difficili di cui mancano ripetizioni da anni se non da decenni. E’ l’alpinismo dunque che non interessa più come un tempo? Seppur con le dovute analisi, impossibili in queste poche righe, in parte potrebbe essere anche così, riferendosi soprattutto a un certo tipo di alpinismo. Non esiste una medicina ad esito rapido per ricondurre gli alpinisti sulle pareti delle nostre montagne, ma qualcosa si potrebbe fare. Occorrerebbe per esempio, che al pari di altri gruppi montuosi e di molti loro colleghi, le guide alpine locali si sforzassero un po’ di più nel promuovere ascensioni lungo quelle vie che hanno fatto la storia dell’alpinismo torinese, sia d’inverno che d’estate. Sarebbe bello che le scuole di alpinismo dell’area torinese e soprattutto local-canavesana, riproponessero nei loro corsi delle uscite nelle nostre valli, badando più a certi terreni piuttosto che all’arrampicata. Ma, soprattutto, a mio avviso, andrebbe cambiata una certa politica del CAI che ha finito progressivamente col trasformare certi rifugi in punti di arrivo piuttosto che in punti di partenza, in presidi gastronomici e in alberghetti a cui affibbiare il marchio di qualità, piuttosto che sobri locali che offrono un tetto sulla testa e un “pasto dell’alpinista”.
Sarebbe inoltre auspicabile non dimenticarsi che, la promozione dell’alpinismo, è tra gli scopi originari e nobili di quel sodalizio nato a Torino ormai quasi 150 anni fa. Va da sè, che la soluzione non può nemmeno essere, come qualcuno ottusamente vorrebbe, quella di facilitare le vie classiche con discese veloci più o meno attrezzate o protezioni fisse nei punti di fermata lungo le vie classiche. Questo fatto, purtroppo, è già successo su montagne come l'Uja di Bessanese. Costruire una nuova cultura dal basso dunque, che parta dall'adattamento dell'alpinista alla montagna e non dall'adattamento della montagna all'alpinista. In questo senso forse, il vento "trad" che spira anche nelle nostre valli (seppur qualcuno, molto maldestramente cerchi di dire il contrario), potrà contribuire a determinare un'inversione di mentalità nel prossimo futuro.