giovedì 30 maggio 2013

Valli di Lanzo: ripartire dal territorio

E’ luogo comune affermare che quando si “tocca il fondo” non si può far altro che risalire. Ora, è difficile dire se in territori come i nostri, questo fondo sia stato raggiunto. E’ però sufficiente captare il senso di resa che talvolta si manifesta nei nostri paesi, per capire che l’impatto al termine della caduta non è poi così lontano. La marginalizzazione delle “terre alte” è certamente stata accelerata dalla crisi economica globale. Il “male” ha però molte sfaccettature: dallo scarso peso politico di certe aree in termini elettorali alla maldestra metabolizzazione dello sfruttamento turistico, che nel corso di un secolo è passato dalla cosiddetta “belle epoque” all’era industriale. E’ in questa fase, tra gli anni ‘60 e ‘70, che il turismo di massa estivo ha conosciuto il suo apice, esaurendo poi la spinta inerziale negli anni ‘80. In molti hanno creduto che la rendita di questo periodo, in cui è fiorita la speculazione edilizia associata alla svendita del territorio, potesse durare per generazioni. La perdita della nostra identità geografica e linguistica, al massimo rispolverata come elemento folkloristico, ha innescato un rapporto uomo – montagna sempre più distante dalla “risorsa territorio”, un allontanamento spesso mediato culturalmente da un’incredibile quanto inspiegabile ignoranza delle risorse paesistiche reali, che invece sono il pilastro dell’architettura socio-antropologica delle nostre valli. Oggi, paradossalmente, la crisi che stiamo vivendo ci offre una nuova opportunità a patto che la si voglia cogliere. Le future politiche territoriali andranno indirizzate alla liberazione delle risorse economiche e culturali delle società locali, risorse che spesso oggi non sono riconosciute come tali. In questo progetto dovrà essere inserito il paesaggio naturale attraverso il potenziamento della rete escursionistica e lo studio di nuovi percorsi d’interesse storico-etnografico, così come un’agricoltura non più confinata a elemento di sussistenza minima o al più integrativo. Per attuare tutto ciò, occorre una piattaforma comune che superi gli storici egoismi locali, costruendo al contrario aree territoriali dinamiche, vero luogo di processi e azioni. E’ necessario cicatrizzare dunque il taglio perpetrato in passato a danno dei valori tradizionali perché ammaliati dall’illusoria prospettiva di un turismo speculativo, ripartendo invece dal territorio e da una nuova sensibilità di lettura. Non è ancora troppo tardi e “risalire” è possibile.

Ricordando Gian Piero Motti

Quest’anno, sabato 22 giugno, ricorderemo la figura di Gian Piero Motti, alpinista e raffinato ideologo della montagna. Lo faremo a Breno di Chialamberto, luogo che gli fu caro fin dall’infanzia e che vide maturare progressivamente quella sensibilità spirituale e visionaria che seppe in seguito far irrompere in un mondo alpinistico dominato dallo stallo intellettuale. Tralasciando la consueta anfibologia: “Nuovo Mattino-Motti” e rifuggendo da velleità agiografiche, dell’uomo Motti a mio avviso occorre senz’altro sottolineare le profonde e solide radici con i luoghi della fanciullezza, con quella geografia degli affetti in cui, la Val Grande in particolare, avrà un ruolo fondamentale nella definizione di quell’animo che coglierà come pochi altri lo spirito evocativo della montagna e dei suoi elementi. Questo fatto emerge in modo esemplare nell’ultimo scritto: “Alla ricerca delle Antiche Sere”, dove la monografia alpinistica sul vallone di Sea è in realtà la scusa per svelare molti elementi chiarificatori del tentativo, forse fallito, di intendere la scalata entro una dimensione spirituale. Le “Antiche Sere” rappresentarono probabilmente una delle ultime espressioni manifeste del mondo alpinistico contemporaneo in cui si possono rilevare tutti gli elementi del romanticismo: la percezione del paesaggio, l’empatia, lo slancio sentimentale, il volo di fantasia, il riferimento all’idealismo magico di Novalis, il simbolismo, la nostalgia. E con il termine “Antiche Sere”, metaforicamente speculare al “Nuovo Mattino” dei primi anni ’70, possiamo altresì intendere un periodo storico ben preciso che va dal 1979 a quel tragico giugno del 1983, quando Gian Piero decise di lasciarci. In noi, all’epoca giovani apprendisti del mondo del verticale, rimase l’indelebile ricordo dei frequenti incontri serali ai Massi di Balme di Cantoira, animati da un uomo elegante nel gesto e nella parola. Negli anni che seguirono, invece, maturò sicuramente in me la voglia di studiare a fondo l’essenza del suo pensiero, troppo spesso mistificato e asservito a un certo manierismo letterario. Ricorderemo Gian Piero dunque, a trent’anni esatti dalla sua scomparsa, lo faremo con amici e famigliari e con il rammarico che le nostre valli non sono solite celebrare i loro uomini più illustri. Lo abbiamo già visto succedere in passato. Ed è un vero peccato oltreché un’occasione persa.